Cecilia Sala è finalmente libera dopo essere stata rinchiusa, dal 19 dicembre scorso, in isolamento nel carcere iraniano di Evin a nord di Teheran, conosciuto per le sue condizioni difficili. Dalle prime immagini che ritraggono la giornalista arrivata a Ciampino appare sorridente e in apparenti buone condizioni di salute, ma quali possono essere le conseguenze sulla psiche di un evento post traumatico estremo come quello vissuto dalla giornalista? L’abbiamo chiesto a Liliana Dell’Osso, presidente della Società Italiana di Psichiatria.
Come reagisce la psiche di fronte a un evento traumatico estremo come quello vissuto dalla giornalista italiana? Cosa possiamo aspettarci?
«Quello che ha vissuto Cecilia Sala è un evento traumatico di gravità estrema, potenzialmente in grado di indurre lo sviluppo di Disturbo Post-Traumatico da Stress, noto come PTSD. Si tratta di un disturbo mentale conseguente all’esposizione diretta o indiretta a guerre, catastrofi naturali o causate dall’uomo, violenza sessuale o fisica, gravi malattie, attacchi terroristici, incidenti automobilistici, rapine, o, come nel caso della giornalista, una detenzione in carcere. Fu la guerra del Vietnam a dare un forte impulso alla ricerca sul tema in realtà già descritto nei reduci delle due guerre mondiali: il sistema sanitario statunitense si trovò a metà anni ‘70 totalmente impreparato di fronte a 700.000 veterani che richiedevano una qualche forma di assistenza che lenisse gli esiti psicopatologici di una guerra durata 7 lunghissimi anni».
Qual è il decorso del “Disturbo Post-Traumatico da Stress”? Qual è la differenza tra PTSD e “Disturbo acuto da stress”?
«La principale differenza riguarda un criterio temporale. Con la diagnosi di “Disturbo acuto da stress” si indicano i sintomi che compaiono solitamente immediatamente dopo il trauma, ma tendono a risolversi nell’arco di un mese, con un recupero di un buon funzionamento sociale e lavorativo. In caso di mancata risoluzione della sintomatologia, il “Disturbo acuto da stress” può evolvere in “Disturbo Post-Traumatico da Stress” (PTSD). Nel caso del PTST il quadro clinico si struttura da tre a sei (o più) mesi dopo l’esposizione al trauma che il paziente rivive continuamente, come i dannati dell’inferno dantesco, sotto forma di ricordi intrusivi, incubi o flashback. L’esposizione a stimoli collegati al trauma, quali luoghi o persone, scatena reazioni di intensa sofferenza che determinano lo sviluppo di condotte di evitamento di tali stimoli. A tutto questo tipicamente si aggiunge una visione negativa e colpevolizzante di sé, sfiducia e diffidenza verso il mondo esterno. Il soggetto proverà sentimenti di paura, vergogna o rabbia: in particolare, nelle donne prevalgono sintomi quali trascuratezza, ridotta cura di sé, perdita di interessi, mentre negli uomini aumenterà l’impulsività e la messa in atto di comportamenti pericolosi come, per esempio, guida spericolata, abuso di alcol e sostanze psicoattive, promiscuità sessuale, comportamenti autolesionistici, tentativi di suicidio. Tra i soldati statunitensi caduti “per effetto” della guerra del Vietnam, circa 50 mila morirono in azioni militari e 60 mila per suicidio dopo il ritorno in USA.
«L’altra faccia della medaglia consiste nell’ottundimento affettivo, la sensazione di non provare più emozioni e un senso di generale futilità. Domina un sentimento di estraneità verso il mondo circostante (si avrà la sensazione di vederlo dall’esterno, come se fosse un film), e le percezioni corporee sembreranno attutite (come se il corpo non fosse il proprio). L’incapacità di ricordare alcuni aspetti dell’evento traumatico (ndr amnesia dissociativa) in occasione di testimonianze, può anche sollevare dubbi di mendacia sulla vittima non in grado di riportare correttamente i dettagli dell’esperienza subita.
«Può anche subentrare uno stato persistente di ipervigilanza, associato a disturbi di attenzione e concentrazione, alla sensazione di “non poter abbassare la guardia”, di “essere sul filo del rasoio”. Non è infrequente che il paziente si trovi a trasalire per stimoli sensoriali inattesi, spesso minimi. Persiste una reattività irosa sul piano interpersonale, mentre su quello neurovegetativo si riscontra difficoltà ad addormentarsi, con frequenti risvegli e incubi. Il decorso è spesso cronico, con grave compromissione del funzionamento socio-lavorativo».
Può essere considerato “normale” quindi che la prima reazione di un soggetto che ha vissuto un’esperienza estrema sia di apparente serenità e che, invece, gli effetti del trauma si vedano nei mesi successivi?
«Gli effetti non si manifestano nell’immediato. Inoltre, non tutti i soggetti esposti allo stesso evento traumatico sviluppano il PTSD; perché questo avvenga è necessaria una vulnerabilità individuale, espressa, tra l’altro, da una tendenza alla ruminazione mentale: i nostri stessi pensieri fanno da “fuoco amico” ripresentando con insistenza e vividezza l’esperienza traumatica che, in tal modo, si moltiplica esponenzialmente nella mente, generando, infine, la sintomatologia descritta sopra».
A parità di esposizione a un evento traumatico esistono dei “fattori protettivi” che possono mitigare gli effetti sulla psiche e dei “fattori di rischio” che possono invece aggravarli?
«È stata dimostrata una maggiore vulnerabilità nelle donne, in particolare giovani, rispetto agli uomini (con tassi circa doppi) e nei soggetti sottoposti a un’esposizione al trauma più intensa, ripetuta o prolungata. Per fortuna, la ricerca non ci indica solo i possibili fattori di rischio, ma anche quelli di resilienza (la capacità di fare fronte in maniera positiva agli eventi traumatici, di riorganizzare efficacemente la propria vita). In primo luogo, è importante non assumere un atteggiamento passivo di fronte agli eventi. Essere informati su quello che può accadere nelle situazioni di emergenza e aver ricevuto un’educazione su come comportarsi e su quali strategie mettere in atto per proteggersi, sono aspetti che possono fare la differenza, contribuendo a prevenire quel senso di impotenza e orrore che può sia compromettere la nostra capacità di mettere in atto strategie utili a limitare i danni, sia favorire lo sviluppo di sintomi da stress post-traumatico. Inoltre, a seguito dell’evento, assumere un atteggiamento attivo, volto alla risoluzione del problema, ricercare il supporto sociale e, eventualmente, medico è un altro elemento cruciale per prevenire lo sviluppo e/o la cronicizzazione del disturbo».
Il “Disturbo post traumatico da stress” va sempre trattato? Se sì, anche in assenza di apparenti sintomi? E come?
«Gli approcci terapeutici al PTSD possono essere di tipo farmacologico, psicoterapico o combinato, permettendo alle due strategie di potenziarsi a vicenda. Per effettuare una scelta, bisognerà tener conto non solo della presentazione clinica della patologia, delle sue caratteristiche e della sua gravità, ma anche degli eventuali disturbi in comorbidità, compresi quelli di medicina generale, delle possibili forme subcliniche e degli aspetti di vulnerabilità individuale oltre che, naturalmente, dell’assetto personologico del soggetto. Questa complessità, riflesso della variabilità individuale, non è riducibile ad una griglia di casi tipo, poiché ogni caso è unico e richiede una valutazione specifica, che risulterà in una terapia personalizzata. L’efficacia terapeutica dipende anche dal momento in cui il caso è giunto all’attenzione clinica: di solito, più la diagnosi e l’accesso alle cure sono precoci, maggiore è la percentuale di risposta positiva al trattamento, fino anche alla remissione completa della sintomatologia. Al contrario, nei casi cronici, che non hanno ricevuto attenzione immediata e che si sono complicati con altri disturbi, è richiesto un trattamento più lungo e complesso, e le possibilità di risposta diminuiscono».
Il vissuto di un’esperienza traumatica che effetti può avere sui familiari della vittima?
«L’attuale sistema di classificazione e diagnosi dei disturbi mentali stabilisce che può risultare patogena l’esposizione traumatica vissuta sia in prima persona che come testimone, oppure solo appresa e occorsa ad un parente o amico stretto. Negli ultimi anni la ricerca ha evidenziato, inoltre, che le esperienze traumatiche, inducendo modifiche molecolari stabili nel DNA, possono essere trasmesse per via “epigenetica” alle generazioni successive non ancora concepite al momento dell’esposizione al trauma. Infine, la letteratura scientifica si sta concentrando su possibili traiettorie psicobiografiche non patologiche come reazioni al trauma, alternative al PTSD. Un contesto culturale e ambientale favorevole, un supporto sociale valido e risorse personali che promuovono abilità di gestione positive possono, infatti, favorire, oltre la resilienza, perfino lo sviluppo di una crescita post-traumatica, definita come un insieme di cambiamenti psicologici positivi sperimentati a seguito dell’esposizione a traumi o situazioni estremamente coinvolgenti».
9 gennaio 2025 – articolo Corriere della Sera di Chiara Bidoli