La nostra presidente eletta Lliana Dell’Osso, è intervenuta ieri sulle colonne del Corriere della Sera. Un intervento importante, richiamato anche nell’editoriale del direttore dell’inserto salute Luigi Ripamonti.
Viviamo, oggi, in una società contraddittoria, altamente tecnologizzata che con forza afferma di promuovere l’inclusione, mentre si avvia velocemente verso un sistema in cui i fragili hanno sempre minor posto.
E il caso, tra gli altri, dei pazienti psichiatrici, soprattutto di quei casi gravi e cronici che richiedono costante assistenza e servizi di supporto. Tutto questo mentre da un punto di vista scientifico, negli ultimi anni, la psichiatria ha invece mosso enormi passi in avanti L’esclusione del disturbo mentale dal campo della medicina non combatte il pregiudizio ma, paradossalmente, lo abbraccia sul fronte della cura, della diagnosi precoce e, soprattutto, della prevenzione (si vedano, ad esempio, i disturbi dello spettro autistico).
A fronte di questa realtà, si è progressivamente fatta strada una critica del concetto stesso di malattia mentale, considerato discriminatorio, associata alla proposta di inquadrare i nostri pazienti come affetti non da una patologia ma piuttosto da un non meglio specificato disagio. Si tratta di una china pericolosa, scientificamente errata ed eticamente ingiusta. Da un punto di vista antropologico, non riconoscere la sofferenza del malato come condizione patologica, sottesa da una specifica (dimostrata) alterazione biologica sensibile al trattamento, equivale, di fatto, a una rinuncia alla cura.
Non soltanto: rischia di accelerare lo smantellamento dei già gravemente carenti servizi per le persone che soffrono. Un meccanismo che favorisce una regressione a metaforici secoli bui, dai quali la scienza aveva permesso l’affrancamento. Nel dibattito internazionale stanno emergendo le prime, terribili conseguenze di questo processo, nella forma, ad esempio, della proposta di morte assistita per patologia mentale.
La negazione dell’ideazione suicidaria come sintomo, in aperto contrasto con consolidate conoscenze scientifiche, porta di fatto all’eliminazione del malato psichiatrico, solo apparentemente volontaria in quanto la volontà del paziente è inficiata dall’ideazione patologica, che potrebbe (e deve) invece essere oggetto di cura. L’esclusione del disturbo mentale dal campo della medicina non combatte il pregiudizio ma paradossalmente lo abbraccia. La direzione corretta sarebbe piuttosto quella di partire dalla critica di quel dualismo mente-corpo che continua a gravare sulle neuroscienze: la concezione del cervello come un organo, al pari del fegato o del cuore, abbatterebbe i presupposti per cui un paziente bipolare debba essere discriminato come individuo più di un paziente diabetico o cardiopatico. Non sarà mettendo da parte il pensiero scientifico che potrà essere costruita una società armonica di uguali. Come medici, come psichiatri e come scienziati, non possiamo permettere che ancora una volta siano i malati psichiatrici a farne le spese.