Non conosciamo i contorni precisi del caso recente, sul quale pertanto non è corretto esprimersi, ma conosciamo la verità processuale di altri casi di omicidi familiari. Quello che emerge è che nella maggior parte di essi la motivazione del delitto efferato non è psicopatologica, anche se, quasi invariabilmente, i difensori legali di questi soggetti fanno ricorso a valutazioni psichiatriche adducendo, se non auspicando, una qualche forma di infermità mentale. Occorre separare l’ambito forense, che mira ad evidenziare una eventuale patologia conclamata, clinicamente rilevante, in grado di scemare o abolire totalmente la capacità di intendere e volere, dal piano clinico, che impone una valutazione più sottile, multidimensionale, che tenga cioè conto sia dell’assetto psichico del soggetto che commette un crimine sia del mileu ambientale, culturale e sociale in cui certi delitti maturano. Mi spiego meglio: nella maggior parte dei casi famigerati non è stata accertata alcuna infermità mentale dei rei, ritenuti pertanto capaci di intendere e volere, quindi imputabili, senza attenuazione della pena, che è stata scontata in un carcere comune.
Spesso si sente dire che si tratta di persone insospettabili, ragazzi tranquilli, con alle spalle situazioni familiari che non destavano nessun sospetto. Ma allora davanti a che tipi di soggetti siamo? Sono spesso persone che hanno un marcato deficit relazionale, della risonanza affettiva e dell’empatia, cioè della capacità di mettersi nei panni dell’altro, di comprenderne i sentimenti e di provarne a propria volta. Sono molto frequenti i tratti narcisistici, quelli per cui il soggetto ha una certa immagine di sé, che nessuno può permettersi di scalfire, e a cui tutto è dovuto. Molti casi esplodono a seguito di un semplice diniego dei genitori o di banali rimproveri per le scarse performance scolastiche, quindi a seguito di un giudizio che viene misinterpretato rispetto al suo intento educativo o che, comunque, non viene tollerato. Ricordo un caso in cui i genitori furono uccisi perché il figlio non voleva che scoprissero che non aveva mai sostenuto gli esami che aveva dichiarato di aver superato all’università.
I cronisti utilizzando espressioni come “follia omicida”, o “raptus”, spesso contribuiscono ad apporre una rassicurante etichetta di disturbo mentale a questi episodi. In realtà, dietro questi omicidi familiari si nasconde una gamma molto ampia di condizioni, che comprende dal disturbo mentale grave (nel caso di Carretta, per esempio, tutti i periti riconobbero una schizofrenia paranoide), a gravi disturbi di personalità (come il disturbo narcisistico di personalità di Pietro Maso), a semplici tratti personologici abnormi, in soggetti per altri versi “normali”. Il tutto, spesso, frammisto ad abuso di sostanze, che spesso fa da detonatore, e i motivi patrimoniali.
Ai fini preventivi bisogna di volta in volta considerare il caso specifico. Tra i fattori che entrano in gioco in atti così estremi da far sorgere sulla bocca dei più la parola “innaturale” si deve sottolineare l’importanza di una storia di traumi infantili, veri o presunti, in soggetti predisposti (ad es. tendenti alla ruminazione mentale). Traumi nell’infanzia sono infatti particolarmente frequenti negli adolescenti autori di reato, spesso misconosciuti perché celati dalle stesse vittime (divenute poi carnefici). Ovviamente, una risposta di un simile grado di violenza non può essere letta alla stregua di un semplice desiderio di vendetta, o di ricerca di fuga da una situazione di sofferenza con un gesto estremo, ma va valutata soprattutto nell’ottica del danno neurobiologico che il trauma ripetuto provoca nel cervello. Lo stato di intorpidimento e di estraneità verso l’ambiente esterno e verso gli altri, con incapacità di provare emozioni (c.d. numbing), che consegue al trauma, può effettivamente generare quel distacco emotivo che permette di concepire e mettere in atto un crimine “a sangue freddo” contro un congiunto. Sembra inoltre che l’esposizione precoce allo stress in un cervello in via di sviluppo possa alterare la capacità di apprendere tramite i meccanismi della punizione, con conseguenti persistenti comportamenti antisociali. Va comunque sottolineata la presenza di altri elementi in gioco (d’altra parte non tutti gli adolescenti autori di omicidio hanno una storia di traumi), quali, in primis, gravi disturbi di personalità narcisistica o antisociale, caratterizzati da assenza di rimorso sulla base di un deficit dell’empatia e dell’immedesimazione, che compromette la capacità di comprendere le emozioni, i pensieri e i comportamenti degli altri. Ipersensibili alle sollecitazioni esterne, a cui si espongono di più a causa dell’ignoranza delle norme sociali, questi soggetti sono predisposti ad ulteriori condotte antisociali, scatenate anche da stimoli banali (una critica, un rimprovero per un brutto voto) in un circolo vizioso potenzialmente infinito e ingravescente, a cui non è estraneo l’abuso di sostanze psicoattive.